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Coronavirus, agricoltura e inquinamento: uno studio ci spiega la necessità del cambiamento

Dove si pratica coltura intensiva registrati 1/3 in più di contagi

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Mauro agnoletti Mauro agnoletti © Roberta Capanni
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È la rivincita della campagna e di un sistema produttivo non intensivo. Il coronavirus ha portato anche questo creando una situazione che ha spinto il laboratorio CULTLAB della Scuola di Agraria dell’Università di Firenze, in collaborazione con la segreteria scientifica dell’Osservatorio Nazionale del Paesaggio Rurale, all’attivazione di un progetto che ha comparato scientificamente sistemi produttivi e qualità di vita.

A capo del progetto il Prof. Mauro Agnoletti del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agrarie, Alimentari, Ambientali e Forestali (DAGRI), esperto in materia di paesaggio e di pianificazione paesaggistica, membro dell’ osservatorio nazionale del paesaggio e presidente dell'Osservatorio Regionale del paesaggio e anche Direttore del Laboratorio sul paesaggio della Scuola di agraria, Università di Firenze, titolare dei corsi di pianificazione e storia del paesaggio, direttore del master internazionale sul patrimonio agricolo, membro dell'executive board di Uniscape, esperto Unesco e Cbd, presidente del Cs del programma FAO sul patrimonio agricolo (GIAHS), direttore della collana di storia dell'ambiente di Springer Verlag e della rivista Global Environment di White Horse Press.

Gli abbiamo chiesto di spiegarci quale è il rapporto tra il virus e l’agricoltura nel nostro paese e in particolare in Toscana. Da questo studio è emerso che nelle aree dove il sistema di agricoltura è tradizionale, cioè non si ricorre all’agricoltura intensiva, la diffusione del virus è di circa 1/3 rispetto ad aree dove prevale quella non tradizionale.

I casi di contagio che si sono registrati nel nostro paese sono legati ai modelli agricoli adottati, vuoi per conformazione del suolo che per scelte produttive. Le aree più colpite dal virus, come la Pianura Padana hanno un incidenza maggiore di utilizzo di agricoltura intensiva specialmente nelle zone periurbane. Stessa cosa nell’Emilia Romagna nelle zone pianeggianti che si affacciano sull’Adriatico, intorno a Roma e Napoli

La Toscana nella valle dell’Arno e in alcune zone della costa presenta lo stesso problema. Quindi ecco la necessità di rivedere alcune scelte, di ripensare politicamente aiuti e spinte. Quello che è girato in questo periodo di quarantena tra gli hastag #iomangioitaliano o #adottaunproduttore si cela di più oltre il problema economico, c’è quello relativo alla salute nel senso più ampio del termine.

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Commenti 1
  • Alfredo Agostini

    Gent.ma Sig.ra Capanni, l'articolo è molto interessante, ma non è la stessa cosa dire (come nel titolo) che dove c'è coltura intensiva i casi sono 1/3 in più che nelle altre zone e poi nel testo dire che in queste zone tradizionali i casi sono circa 1/3 rispetto alle zone di coltura intensiva. Forse manca un "in meno" perché fossero davvero 1/3 di quelle sarebbe un dato oltremodo degno di nota. Perdoni la puntualizzazone ma credo che una precisazione non guasterebbe.

    rispondi a Alfredo Agostini
    mer 22 aprile 2020 07:21